Articolo pubblicato il 13 luglio 2014 su 35mm.it
Downton Abbey è la serie televisiva dei record. La prima stagione di questa produzione anglo-americana, ambientata nell’Inghilterra della tarda epoca edoardiana, è andata in onda nel 2010 e da noi in Italia è arrivata l’anno successivo. Altre tre stagioni si sono succedute negli anni a seguire e in questo momento si stanno svolgendo le riprese della quinta. Potrebbe essere l’ultima, ma i produttori non si sbilanciano (Nota: questo era lo stato dell’arte a luglio 2014. È stata poi girata anche una sesta stagione nel 2015).
Punto centrale della vicenda è la tenuta di Downton Abbey, nello Yorkshire, abitata dall’aristocratica famiglia dei conti di Grantham. Il conte e la contessa hanno avuto tre figlie – Mary, Edith e Sybill – che non possono vantare diritti, in quanto donne, sull’eredità paterna. Il fortunato successore sarà quindi – a tempo debito – il figlio di un cugino del conte, Patrick. Ora, tanto fortunato il ragazzo non si rivela, visto che scompare, insieme al padre, nel naufragio del tristemente famoso Titanic, il 15 aprile 1912.
Il nuovo erede risulta essere Matthew Crawley, un avvocato di Manchester, cugino di terzo grado del conte, lontano dallo snobismo e dalla rigidità dell’alta aristocrazia, che lo accoglie con sospetto e una certa dose di malcelato disprezzo, poiché per guadagnarsi il pane quotidiano compie un’attività esecrabile: lavora.
A inserirsi nel nuovo ambiente non lo aiuta la presenza di sua madre, Isobel, che spesso ingaggia battibecchi pepati – ma educatamente british – con la figura che, a mio giudizio, è la più azzeccata in assoluto e cioè Lady Violet, Contessa Madre di Grantham, interpretata da una strepitosa Maggie Smith.
Queste poche righe introduttive potrebbero far pensare a una trama banale, ma è tutt’altro che così.
Downton Abbey affronta molti temi “difficili”, come l’omosessualità, la battaglia per i diritti civili, il voto alle donne, gli scandali sessuali e l’aborto, attraversando il periodo buio e devastante della prima guerra mondiale. Non viene mostrato solo lusso, benessere e i capricci delle nobildonne: le storie dei personaggi si svolgono sia upstairs, al piano dei nobili, con i loro pregiudizi e gli atteggiamenti un po’ stereotipati, che downstairs, nelle cucine e nelle stanze dei domestici, protagonisti alla pari e, a volte, più rigidi e snob dei loro padroni – aspetto splendidamente trattato, ad esempio, in “The Remains of the day” (Quel che resta del giorno).
Ad ogni livello della scala sociale si sviluppano amori e lotte per raggiungere maggior prestigio, ricatti e segreti, tradimenti e scandali. I personaggi, che sono molti e tutti rilevanti, mostrano ogni sfaccettatura del genere umano e sono ben caratterizzati e approfonditi. Alcuni si amano istintivamente, altri rimangono odiosi in un attimo. Pregi, difetti e debolezze risultato evidenti e sviluppati ad arte.
Gli attori sono molto bravi, nessuno escluso e interpretano il loro ruolo alla perfezione; figure definibili “secondarie” ce ne sono ben poche e, anche in quei casi, hanno sempre un momento in cui godono di maggior risalto.
E che dire delle ambientazioni e dei costumi? Perfetti. I particolari sono curati nei minimi dettagli e ci si trova subito catapultati all’inizio del secolo scorso, un periodo storico vivo e vitale. È anche interessante partecipare ai progressi di quell’epoca innovativa: risulta divertente, ad esempio, il comportamento sospettoso degli abitanti di Downton Abbey quando nella lussuosa residenza viene installato uno dei primi telefoni.
Insomma, un prodotto di grande qualità. Sugli intrecci narrati e sui tanti pregi di questa produzione si è parlato ovunque, approfonditamente e in quantità: appare superfluo dilungarsi oltre, a rischio di ripetere ciò che qualcun altro ha già detto, probabilmente con parole migliori.
Come si diceva all’inizio di questo articolo, Downton Abbey vanta parecchi primati. Scorrere la lista delle candidature di questa serie ai più prestigiosi premi internazionali, molti dei quali ottenuti, lascia basiti. L’acclamazione pressoché unanime della critica ne ha addirittura decretato l’ingresso nel Guinness dei Primati. Il mio giudizio, completamente positivo ed entusiasta, non può apportare nulla a una serie di tale levatura. Vorrei, quindi, puntare l’attenzione su un aspetto completamente differente.
La terza stagione (Nota: al momento della redazione di questo articolo, era l’ultima trasmessa in Italia e anche l’ultima che ho visto) negli Stati Uniti e in Gran Bretagna viaggiava con una media di 10-11 milioni di spettatori a serata, mentre da noi la prima puntata ne ha contati circa un milione, per poi scendere a 800.000 in occasione dell’ultima.
Per farla breve, la serie dei record in Italia è stata un flop.
Perché? Bella domanda. Sono andata a indagare e di spiegazioni ne ho trovate diverse.
C’è chi giudica sbagliata la collocazione in un canale televisivo come Rete4, che non definiremmo proprio famoso per presentare serie TV di qualità. Ci si aspetta più di vedere qualcosa alla Beautiful o una struggente telenovela. Sarebbe stata più adeguata, ad esempio, RAI 1. E questo ci può stare ma, evidentemente, i diritti televisivi li ha acquistati Mediaset.
In varie fanpage – Internet ne è piena: i sostenitori della serie non saranno moltissimi, ma sono davvero grandi appassionati – si lamentano di tagli e censure apportati alla versione italiana, probabilmente per ridurne i tempi di programmazione e inserire adeguatamente le pause pubblicitarie. Sono state soppresse scene importanti, che si trovano invece nella versione originale (c’è anche sottotitolata in italiano). Di certo questo elemento non ha aiutato. Peccato non siano disponibili i dati sullo streaming.
Il direttore di Rete4, Giuseppe Feyles (Nota: in carica nel 2014), confermando che la quarta serie vedrà la luce anche qui in Italia, a dispetto dei rumors contrari, ha dichiarato: «Sapevamo che era un prodotto difficile, perché parla alla testa e non alla pancia.»
Non è un’osservazione lusinghiera, ma è così lontana dal vero?
“Don Matteo”, in programmazione contemporaneamente a Downton Abbey, raccoglieva circa 8 milioni di telespettatori. A mio parere, il successo di quella serie è da attribuire soprattutto all’affetto che tutti nutriamo per Terence Hill, alla simpatia di Nino Frassica e ai bei panorami della verde Umbria, ma tant’è.
Viene spontaneo pensare che lo spettatore televisivo italiano prediliga una programmazione di evasione, leggera, poco faticosa da seguire. Unica eccezione alcune fiction nostrane sulla vita di grandi personaggi (Adriano Olivetti, Papa Woytila, i giudici Falcone e Borsellino, quasi tutti in programmazione su RAI 1) o storie “forti” sulla criminalità organizzata oppure gli immortali polizieschi (Il Commissario Montalbano, Distretto di Polizia, RIS). Restano imbattibili le serie americane su ospedali, medici legali, polizia scientifica, agenti FBI e così via.
Non ho sicurezza di questo, sono solo ipotesi, ma è certo che – se così fosse – sarebbe davvero un gran peccato.
Le produzioni britanniche, ancor di più di quelle d’oltreoceano, offrono – a mio giudizio – delle vere perle, specialmente le serie in costume prodotte dalla BBC, nelle quali si trovano dei piccoli capolavori.
Per iniziare, vi consiglio l‘acquisto della prima serie. Vi piacerà!